Il quinto capitolo della Bhagavadgita

Il quinto capitolo si apre con una nuova perplessità di Arjuna. Di nuovo lo ksatriya, infatti, rileva una contraddizione tra il principio del Sankhya, della rinuncia alle opere, e quello dello Yoga, fondato sull’importanza dell’azione.
Già nei versi precedenti la Gita concilia i due principi con la spiegazione del fatto che gli uomini si illudono di essere loro stessi a compiere le azioni, quando invece le loro azioni sono manifestazione del Motore Primo. Krishna ha già spiegato che non bisogna commettere l’errore del non agire, ma l’obiezione di Arjuna è la manifestazione della mentalità pragmatica degli uomini, restii a comprendere concetti profondi.
Sankhya e Yoga, spiega Krishna, sono due facce della stessa medaglia, è da bambini vederli scissi, poiché essi tendono allo stesso fine differenziandosi solo per il metodo.
Di nuovo viene ribadito il concetto di necessità di rinunciare all’azione come procedimento interiore e spirituale, piuttosto che esterno e materiale. E’ l’offerta di ogni azione al Signore.
Grazie a questa rinuncia interiore l’uomo saggio raggiunge la conoscenza che risplende su di lui come un sole.
Il saggio è pieno di amore per tutti gli esseri viventi e considera alla stessa maniera il bramino e l’elefante.
Come il Brahman è al di sopra di ogni colpa o merito dei singoli, così l’uomo saggio ha il cuore aperto a tutto il creato e nessuna circostanza può turbare la sua equanimità.
Krishna introduce inoltre due concetti fondamentali: il brahma-yoga ed il Nirvana.
Il saggio ha un atteggiamento di distacco rispetto al piacere poiché sa che esso ha un inizio ed una fine e genera dolore.
Egli sa che non deve fatalisticamente affidarsi al termine del ciclo delle incarnazioni per vedere la propria anima liberata, perché sa che è suo dovere tendere alla libertà dal desiderio (moksha) in questa vita.
Debellata la schiavitù dall’attaccamento alle cose particolari l’uomo raggiunge la piena felicità, non accettando il giogo dei guna.
La perfetta rinuncia riconduce al Sé superiore, con la sconfitta dell’ego che fa sentire l’uomo identificato con il suo limitato corpo.
Questo è il Nirvana.
La Bhagavad Gita esprime una concezione ampia di Nirvana, inteso come distruzione dell’ego e stato di coscienza perfettamente compatibile con la conduzione di una vita terrena e umana.
E’ lo stato in cui il saggio, pieno dell’amore divino, agisce per il bene di tutte le creature, libero dai dualismi ed avendo superato il livello della coscienza particolare e separatrice.
Negli ultimi versi Krishna fa riferimento ad alcune pratiche tipiche dell’Hatha-Yoga e del Raja-Yoga, come la meditazione in ajna chakra o il pranayama, lasciando intendere comunque che si tratta di ausili o metodi particolari che possono sostenere l’uomo nel suo percorso di crescita ed ascesi spirituale.
L’ultimo verso del capitolo, infatti, ribadisce l’idea sottesa a tutto il poema, quella del Purushottama.
“Sono io il fine ultimo di ogni cosa”, sostiene in estrema sintesi Krishna, che quando usa i termini “Io” e “Me” intende sempre il Sé unico ed immutabile.
Si ritrova tutta la forza del karma-yoga: chi viene a conoscenza del Signore, l’Amico di tutte le creature, trova il Nirvana dentro di sé e per ciò stesso trova dentro di sé la devozione (bhakti) e l’infinito amore per il mondo.