Il primo capitolo della Bhagavad Gita: la disperazione di Arjuna
Ecco la sintesi del primo memorabile capitolo della Bhagavad Gita dove inizia il dialogo tra Arjuna ed il suo condottiero Krishna al quale esprime tutta la sua disperazione
Il re Dhritarashtra chiede al suo servo Sanjaya di descrivergli gli avvenimenti della battaglia che vede contrapposti i suoi figli ai Pandava nel campo del Kuruksetra.
Sanjaya risponde che, dopo aver osservato la falange dei Pandava, Duryodhana si rivolge al “primo ufficiale” del suo esercito e quasi lo rimprovera per il fatto che nella schiera opposta ci siano guerrieri che sono stati suoi discepoli. Il gesto di Duryodhana il cui ruolo di capo supremo nel testo sanscrito viene rilevato dall’appellativo raja (=re) denota la drammaticità del momento: egli non può prescindere, infatti, dal consultare il capo delle sue truppe.
Segue l’enunciazione da parte di Duryodhana dei nomi dei guerrieri più valorosi di entrambi gli eserciti. Tutti gli uomini schierati con i Kaurava sono pronti a morire per Duryodhana, che è sicuro di possedere un esercito invincibile, anche perché l’anziano Bhisma è con loro.
Risuonano dunque nell’esercito dei Kuru le conchiglie e tutti gli strumenti che annunciano l’imminenza della battaglia.
L’attenzione si sposta sul versante opposto della battaglia, in particolare sul carro dove si trovano Arjuna e il suo auriga Krishna, anch’essi nell’atto di far risuonare le loro conchiglie che, a differenza di quelle dei Kaurava sono divyau (= trascendentali), così chiamate per far comprendere sin dai primi versi al lettore la differenza dei due schieramenti, l’uno che si è allontanato dalla retta via, l’altro che uscirà vittorioso dalla battaglia poiché, seppure in seguito ad un travaglio interiore di Arjuna, si affida al Signore Supremo ed al rispetto del Dharma.
Lo schieramento di Duryodhana in particolare rappresenta le forze dell’ego e del particolare che ci allontanano dall’universale, annebbiando la nostra mente con sentimenti terreni e individuali, come il desiderio di possedere e di prevalere.
Nel corpo del racconto Krishna viene chiamato in diversi modi. I primi due appellativi riportati sono Hrisikesa (= il Signore che guida i sensi dei suoi devoti), perché Krishna è il proprietario dei sensi di tutti gli esseri e Madhusudana (=uccisore di Madhu), poiché il dio uccise il demone Madhu, così come è in procinto di uccidere il demone del dubbio che rischia di allontanare Arjuna dal compiere il suo dovere di ksatrya.
Un altro “indizio” al lettore sull’esito della battaglia: il suono delle conchiglie dei Pandava fa tremare il cuore dei Kuru, mentre quando viene descritto il suono delle conchiglie di questi ultimi non vi è nessun tipo di accenno ai sentimenti suscitati nell’esercito rivale.
Inizia la disperazione di Arjuna che, proprio quando sta per lanciare la prima freccia, si ferma e chiede all’infallibile (acyuta) Krishna di portarlo al centro dei due schieramenti, per poter vedere bene chi gli si oppone dall’altra parte. Così Krishna alla guida dello “splendido carro” (= rathottamam) soddisfa la richiesta del suo devoto, a cui si rivolge chiamandolo Parta, ovvero figlio di Kunti, detta anche Prithi. Questo accenno di Krishna a sua zia Kunti ricorda al lettore il doppio filo che lega il dio ad Arjuna. Alla vista di tutti i suoi parenti schierati Arjuna confessa di non avere coraggio: gli tremano le membra, la bocca si inaridisce, l’arco gli scivola dalle mani. Non vuole combattere, perché non capisce che beneficio potrebbe portargli una vittoria macchiata dal sangue dei congiunti. Arjuna sa che i suoi parenti gli hanno fatto del male (ma ancor di più, da un punto di vista filosofico hanno offeso il Signore Supremo con le loro azioni malvagie), tuttavia non vede perché dovrebbe a sua volta commettere un crimine uccidendoli. Essendo un uomo pio è più facile per lui perdonare ed avere il cuore pieno di compassione piuttosto che commettere un’azione empia.
Arjuna nel momento di sgomento riesce solo a vedere eventi funesti; nella sua ottica limitata di essere umano dimentica che nel piano della giustizia divina, di cui egli è uno strumento, anche ciò che agli uomini può sembrare incomprensibile e sbagliato è invece giusto. Nella sua supplica Arjuna chiama il dio Madhava, cioè marito della dea Fortuna: se Krishna è così portatore di buona sorte perché mai dovrebbe guidare il suo devoto a compiere un’azione che sarà sicuramente fonte di disgrazie per lui? Meglio essere ucciso e non opporre resistenza piuttosto che uccidere il suo stesso sangue.
Arjuna fa riferimento a fonti autorizzate (= anususruma), quasi a voler sottolineare che anche il più pio degli uomini ha comunque bisogno di una guida ed un riferimento certo nel cammino spirituale: chi distrugge le famiglie risente per sempre delle conseguenze di una simile azione.
Lo smarrimento di Arjuna è quello di ogni essere umano nei momenti di difficoltà, quando siamo pronti con argomentazioni apparentemente convincenti (il rifiuto di fronte alla violenza) a mentire alla nostra stessa coscienza (è chiaro, infatti, che le parole rivolte a Krishna sono in realtà un tentativo di convincere se stesso), guardando alla caducità delle cose periture e terrene, piuttosto che al disegno divino.
Dopo aver pronunciato queste parole Arjuna, lasciato cadere l’arco che aveva imbracciato, si abbandona sul carro, pieno di dolore.